Non si ruba sul latte versato, un libro sullo sciopero dei pastori sardi

È uscito per l’editore DeriveApprodi un libretto curato dalla redazione di InfoAut, “Non si ruba sul latte versato. Sullo sciopero dei pastori sardi”. Riportiamo di seguito un estratto dall’introduzione.

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Il sei febbraio attorno alle nove e mezza di mattina in località Giana, nelle campagne tra Serramanna e Villacidro, in provincia di Cagliari, un’autocisterna che trasporta latte ovino viene fermata da alcuni uomini mascherati. L’autista viene fatto scendere e accompagnato verso il rubinetto della cisterna. Migliaia di litri di latte di pecora destinati a un vicino caseificio industriale per essere trasformato in pecorino romano da vendere alla grande distribuzione vengono versati nei campi. Gli uomini invitano l’autista a filmare la scena e a inoltrare il video sulla sua rubrica whatsapp con un saluto particolare al suo principale, l’industriale che gli paga il trasporto del latte, il padrone dei pastori, degli uomini che probabilmente si celano sotto la maschera. Il video circola vorticosamente. Tanti pastori lo vedono. Annuiscono. Un allevatore di Fonni, Nando, è un uomo strozzato dai debiti, il suo latte come quello dei suoi colleghi, è pagato sottocosto: 60 centesimi al litro. Secondo il rapporto ISMEA 2018 il costo medio di produzione di un litro di latte per un’azienda di medie dimensioni, tra i 50 e i 384 capi, il 76% delle 12, 058 aziende censite in Sardegna, è di 1,82 euro1. Il pastore paga tutto: i mangimi, gli affitti delle mungitrici, spesso l’affitto dei pascoli. L’industriale raccoglie, trasforma e guadagna. Nando si dirige verso il refrigeratore dove conserva il latte, mette play sulla camera del suo smartphone e apre il rubinetto: «meglio buttarlo che regalarlo agli industriali». Il giorno successivo altri pastori prendono il proprio smartphone e dopo aver munto si dirigono ai propri ovili e si filmano mentre gettano alla fogna il frutto del proprio lavoro. Prima qualche decina, poi centinaia di video. È uno sciopero. Dopo pochi giorni sono in migliaia a non conferire più il latte agli industriali: «vogliamo un euro a litro di latte. Lo paghino gli industriali». Si vuole tutto subito. I pastori si incontrano e gettano collettivamente il latte a terra in decine e decine di paesi di tutta la Sardegna. Iniziano i blocchi stradali, i posti di blocco dei pastori ai porti che perquisiscono camion e cisterne, altre cisterne del latte ancora sono fermate e svuotate. Iniziano i presidi davanti ai caseifici per non fare entrare il latte conferito dai crumiri e non fare uscire prodotto lavorato. Il 13 febbraio la Sardegna è completamente paralizzata. Comunità intere si accodano alla lotta dei pastori contro gli industriali sospendendo ogni attività. È uno sciopero sociale. Durerà un mese. Costretta da una sollevazione repentina la politica corre ai ripari e confusamente convoca tavoli per cercare degli accordi. Saranno otto in tutto. Prima fatica a trovare interlocutori. I pastori non vogliono farsi catturare. Tutto è spontaneo, caotico e veloce: non ci sono capi, non ci sono rappresentanti e le vecchie figure del Movimento Pastori Sardi, l’organizzazione storicamente alla testa delle mobilitazioni degli allevatori isolani, sono in ritardo, spiazzate, superate. La politica media, cerca di far incontrare pastori e industriali per salvare la filiera e perché la lotta diventa un fatto di “ordine pubblico”. Mano a mano gli esponenti di MPS riprendono posto ai tavoli come semplici pastori. Si cerca un compromesso ragionevole. «Non possiamo ottenere il risultato dall’oggi al domani»2. Prima 72 centesimi, poi il rilancio a 80, infine si chiude a 74 centesimi IVA esclusa. È l’otto marzo, e…

come spesso succede
quando in mezzo a una folla s’è accesa la rivolta
e l’ignobile plebe infuria, sassi volano
e tizzoni, il furore arma tutte le mani,
ma ecco i rivoltosi vedono un personaggio
illustre per i suoi meriti e per la sua pietà
e ammutoliscono, tendono l’orecchio; quegli frena
con le parole gli animi, intenerisce i cuori:
così il fragore del mare cessò3.

Ma la tempesta si è placata del tutto o correnti turbinose ancora agitano le acque in profondità?

Perché interessarsi di quanto successo in Sardegna nel febbraio 2019? È stato un avvenimento inedito. La più virulenta esplosione di protesta nella storia della pastorizia sarda. E quindi? Solo il fascino di raccontare un avvenimento di grossa portata? Il desiderio di riscattarlo da una mediocre visibilità mediatica? No. Un primo chiarimento allora va fatto: non abbiamo scritto da giornalisti, non abbiamo studiato da sociologi. Siamo rimasti colpiti da un fenomeno dirompente perché abbiamo scorto dei frammenti comuni ad altre sollevazioni di questo tempo e, azzardando, vi abbiamo intuito le tracce della lotta di classe oggi. Nell’arroganza di questa ipotesi c’è già la volontà di attraversare un’esperienza, di darle forza per farla scontrare con altri mondi: sensibilità e culture politiche scarsamente comunicanti con questa realtà, perplesse, scettiche o più semplicemente ignoranti rispetto allo scontro verificatosi. Se una sensazione precisa ci ha mosso nell’avvicinarci ai blocchi, ai presidi, alle riunioni dei pastori quella è stata la curiosità. Sentire rispetto per uomini che si sottraggono a un ruolo preordinato, negando il proprio lavoro, unendosi e rischiando tutto: il mezzo presente della loro riproduzione come pastori, la libertà presente e quella futura per guadagnarne una nuova e migliore. Una curiosità che si sviluppa in una tensione etica a voler crescere assieme trasformandosi nello stesso movimento di chi ha iniziato a lottare. Oggi serve soprattutto questo. Per prendere contatto con la realtà laddove si increspa. Per non correre il rischio di vederla da fuori, dall’alto, come una planimetria. Questo è un pianeta che ha sbandato dalla sua orbita. Abbiamo provato a seguirne le traiettoria.
Siamo militanti politici di base. Cosa ci ha obbligato a interrogarci? Innanzitutto la potenza dell’autonomia dell’iniziativa conflittuale. Anteporre questa impressione a ogni pregiudizio ci ha permesso di avere un campo visivo sgombro, di essere aperti e determinati a imparare da quanto stava succedendo. Un’attitudine per noi importante, fondamentale e preliminare ma che, se presa per sé sola, comunque risulta insufficiente a comprendere in profondità la materialità di un processo.

Dare valore alle esperienze. Alle figure, ai contesti, ai processi organizzativi che le hanno prodotte nonostante ogni previsione, contro ogni pessimismo, a dispetto di qualsiasi rassegnazione. Abbiamo incontrato pastori di ogni età. Uomini e donne. Abbiamo visto la forza dei più giovani, abbiamo visto cosa generava la loro sofferenza, ciò contro cui lottavano. Questa è stata prima di tutto una lotta contro gli industriali. Abbiamo collezionato e messo in fila le nostre impressioni, abbiamo provato a sistemarle sulle parole dei pastori. Questo librino raccoglie e mette in forma questa esperienza e per questo semplicemente si compone di un racconto di un mese di lotta filtrato dai nostri occhi, di un testo di riflessione su ciò che ci sembra di aver imparato e infine di alcune interviste raccolte nei giorni immediatamente successivi all’accordo dell’8 marzo. Sul breve testo di approfondimento confessiamo un nostro debito significativo nei confronti del lavoro di Romano Alquati che, come si noterà, ha orientato sia analiticamente che metodologicamente la nostra ricognizione nel tentativo di farci strada in quella circolarità che da alcune pre-ipotesi provvisorie largamente approssimative ci ha condotto ai terreni di verifica della lotta per poi tornare a confrontarci con un livello di astrazione un po’ più determinata. Ogni sezione adotta una prospettiva e un registro differente di interpretazione degli stessi fenomeni quindi ogni parte può essere letta come un contributo in sé concluso.
Abbiamo sentito essere il nostro compito soprattutto quello di dare valore all’esperienza dell’autonomia dei comportamenti di classe alle condizioni del nostro tempo. Soprattutto a posteriori, dopo la lotta o alla fine di una sua fase. Perché chi ha visto confermare i propri pregiudizi ha sempre solo fatto i conti con i propri preconcetti: sostenendo che si trattasse di una battaglia egoista, opportunista, priva di qualsiasi carattere ricompositivo. Perché – dicono i detrattori della protesta – questo hanno oggettivamente sempre espresso gli interessi di questo settore e la loro traduzione politica o perché, peggio ancora, soggettivamente i pastori non hanno mai fatto la politica, seguendo il suo linguaggio universalista, le sue forme rappresentative, i suoi valori di conciliazione con la società. Ma la politica, in queste forme, è un ostacolo, crediamo, al contrario, noi. Allora ci è sembrato importante proporre un pensiero che provasse a leggere la politicità dei fenomeni a un livello ulteriore, facendo parlare i comportamenti e non gli specchi deformanti ai quali vengono ricondotti e che di volta in volta, sempre più spesso in questo tempo, restituiscono immagini di fascisti in luogo di uomini stremati dal risentimento, di nichilisti in luogo di uomini semplicemente diffidenti. Sono storture. Solo perché non si riesce a comprendere. Perché non ci si vuole immergere in quanto accade. Ma la realtà preme e gli specchi si infrangono. In questo senso si può dire, senza scomodare grosse pretese, che è comunque sempre in gioco un’ontologia politica nuova. Quali valori, lenti, categorie interpretano ciò che produce nuova realtà? Bisogna concedere qualcosa alla possibilità che esperienze collettive nuove covino sotto la realtà ufficiale, risalendola, organizzandosi per cambiarla di segno. Chi ci obbliga d’altra parte a condividere una prospettiva che sempre dall’alto sfiducia o promuove ciò che si muove in basso? Non è forse la vecchia storia dell’ideologia come falsa coscienza?
La verità è che la maggior parte delle categorie di cui disponiamo per interpretare i conflitti sociali oggi non sono altro che delle goffe mistificazioni ideologizzanti foriere di una paralisi del pensiero. Anche e soprattutto l’uso di quelle di derivazione vagamente marxista o riferibili a un’ampia tradizione di sociologismo marxista travestito da posa militante. La sinistra ha parlato storicamente sempre male dei pastori. In Sardegna ha prima provato a estirparli, per trasformarli in proletariato industriale, ha tolto loro l’uso comune delle terre di pascolo, poi li ha criminalizzati, offesi, combattuti. Seguiva un suo progetto: l’industrializzazione, la modernità, il progresso, il compromesso tra lavoro e capitale. Aveva un’idea di mondo che tradiva semplicemente l’interesse materiale e irriducibile di chi viveva di bestiame. Come è possibile che ci siamo liberati di quell’orizzonte ma continuiamo a pensare e giudicare la realtà come se ancora ci fossimo dentro? Non basta più consolarsi assumendo che la realtà di oggi è spuria e ambigua perché non quadra con la rappresentazione che ce n’eravamo fatti. Abbiamo davvero da reclamare molta più libertà da quella concessaci dalla nostra capacità di giudizio. Di pensiero. Di azione.