Riportiamo di seguito una riflessione scritta dal Collettivo Universitario Autonomo di Pisa.
I tre atenei di Pisa – l’Università, la Scuola Normale Superiore e la Scuola superiore Sant’Anna – riuniti con l’arcivescovo nell’aula Magna storica della Sapienza, come un cerbero a quattro teste. Ma cosa potranno tramare? Un HUB DI PACE, leggiamo a chiare lettere sui giornali nei giorni successivi all’incontro.
Per la città che ha conosciuto un movimento studentesco tra i più vitali d’Italia, che non si è dato pace dall’inizio del genocidio, e che con costanza, determinazione e coerenza si è battuto contro una governance complice e ignava, sentire parlare i tre rettori di Hub della pace può essere disorientante. Così disorientante da sentirsi le parole rubate, il terreno sottratto da sotto i piedi, la capacità di agire vacillante. Noi oggi scommettiamo che su questo si gioca la loro tattica: precedere, cooptare, prevenire.
Dove l’andamento alla guerra è irreversibile per un’università intessuta in un sistema di guerra mondiale, il rifiuto di chi l’accademia vive e fa vivere si fa sempre più insanabile, incompatibile con il riformismo e i compromessi delle governance. Dopo gli ultimi mesi di mobilitazioni per la Palestina, i tre atenei – tutti e tre investiti in prima persona dalle mobilitazioni delle loro comunità studentesche – hanno scelto di lanciare la carta da 90, come tentativo obbligato e al contempo disperato. Si prova ancora una volta a catturare per pacificare, ma essendo la posta in gioco sempre più alta, così deve esserlo anche la proposta.
In questo articolo vorremmo andare oltre alle considerazioni, già fatte più volte, sulla tattica di peacewashing dell’Università che pur millantando pace fa soldi sulla guerra. Pensiamo che nelle brevi dichiarazioni lasciate ai giornali trapeli una prospettiva strategica che possiamo iniziare a mettere a fuoco. Il ruolo dei tre atenei in questo processo risulta diverso ma complementare. Il piano unico per i tre atenei, in linea con il governo, ce lo spiega il Rettore della Scuola Sant’Anna: la costruzione sul territorio di un hub per la pace e la partecipazione all’impegno italiano per la ricostruzione di Gaza, tramite la realizzazione sul suolo palestinese di un ateneo italiano e l’avviamento di un processo di Science Diplomacy.
L’ITALIA NEL PIANO DI PACE. Questa è l’agenda del Ministro Tajani a Gaza, per permettere anche all’Italia di mettere le mani sui soldi della ricostruzione. Tajani sottolinea l’importanza di un sostegno trasversale, capace di essere interdisciplinare, che non trascuri gli aspetti fondamentali dell’educazione necessari per ricostruire una società civile in grado di aprire un dialogo interno. “Anche questo è un modo concreto per contribuire a formare la futura classe dirigente: per una Palestina libera, prospera, sovrana e pacifica. Una Palestina che, in tali condizioni, l’Italia è pronta a riconoscere senza ulteriori attese, ma che avrà bisogno di una leadership forte, trasparente e preparata. A questo proposito stiamo lavorando in stretto raccordo anche con il ministro Zangrillo per mettere a punto iniziative di formazione mirata per l’Autorità nazionale palestinese, come ad esempio un programma di scambio di diplomatici.”
Anche Meloni intervistata rilancia la disponibilità italiana a partecipare al piano con la formazione e l’addestramento delle forze di polizia dell’Autorità nazionale palestinese e il rafforzamento delle loro capacità operative. «Siamo pronti a contribuire con i nostri Carabinieri da anni presenti a Gerico, per la formazione della polizia palestinese, e nella missione Ue per Rafah, il cui numero siamo pronti ad aumentare»
SCIENCE DIPLOMACY E COLONIALISMO. In questo quadro si inserisce il ruolo strategico dell’accademia, che come in casa ha il mandato di riprodurre un sistema capitalistico e guerrafondaio, così anche nelle proiezioni coloniali del nostro governo si propone nelle stesse vesti, e come succede in territorio colonizzato, ancora più esplicitamente.
La Science diplomacy ha l’obiettivo di promuovere “iniziative di cooperazione accademica tra le università palestinesi e israeliane, nel presupposto che l’Università debba essere luogo di dialogo e di confronto”. Gli atenei pisani, quindi, si propongono mediatori per la soluzione politica coloniale che l’Occidente progetta per Gaza. La science diplomacy è un concetto già ampiamente criticato da anni come un framework insufficiente, e invece proprio ora ricompare nelle agende dei nostri rettori.
Ricompare quando a Gaza di università con cui parlare non ce ne sono più – ricompare per parlare con le istituzioni israeliane e magari anche quelle palestinesi disciplinabili – nella piena realizzazione di quelli che sono gli strumenti internazionali come oppressione e disciplinamento. La comunità accademica decide con chi parlare e quali sono le istituzioni, persone, idee legittime (in questo caso l’ANP) le altre saranno bollate come terroriste: è un esercizio di classificazione indiretta che dura anni ma è utile a dividere chi è legittimo da chi non le è, chi è legittimato a usare la forza e contro chi si è legittimati a usare la forza, perché i diritti non valgono ovviamente allo stesso modo.
La reiscrizione della realtà sta anche su un altro livello: quando si parla di due fazioni in guerra tra loro si riscrive la realtà – la realtà è che Israele sta portando avanti un genocidio ai danni popolo Palestinese. Descrivere due popoli come due bambini che non riescono a parlarsi, magari per qualche incomprensione religiosa o scaramuccia del passato, è un racconto coloniale che riduce i popoli a selvaggi immaturi che devono essere riportati alla ragione dall’occidente. Questo si chiama colonialismo. In questo piano è evidente un grande assente: i responsabili del Genocidio ovvero il sionismo, Israele e tutti i suoi stati amici. La minaccia per la stabilità del medio oriente e per la popolazione civile è Israele.
Quei “ponti”, quell’internazionalizzazione che si apre verso altri paesi sono spesso e volentieri modi per esportare l’agenda italiana all’estero, estrarre competenze, forza lavoro che viene in Italia a fare la ricerca ad un costo minore, intortata della bella favoletta di dare l’opportunità di venire a studiare in Italia per chi è più bisognoso. Corsi di formazione su Risoluzione dei conflitti, peace building sono un mare di parole in cui si affoga, sbracciandosi per evitare di dire l’unica verità: le guerre, i conflitti non nascono per incomprensioni, nascono e vengono fomentate per le precise agende degli stati-nazione che hanno mire espansive ed estrattive. Nel caso della Palestina, Israele è uno stato che nasce su una precisa idea di pulizia etnica del popolo palestinese e oggi porta avanti la sua agenda iniziata nel 1948 con la Nakba, in Sudan sono l’UAE ad avere espliciti interessi nelle terre e nei minerali rari e metterci su le mani, per cui per anni hanno sponsorizzato ed armato milizie.
Dietro questi ci saranno sicuramente molti altri interessi dalle terre rare al petrolio ma soprattutto ci sono tanti stati, come l’Italia, che forniscono armi e supporto necessari a compiere questi genocidio. E quindi se la guerra ai popoli si può chiamare “pace” e la complicità “impegno nella ricostruzione”, allora è comprensibile che il piano delle nostre università – che collaborano con atenei Israeliani e con aziende che producono armi – si mettono si chiami hub di pace.
Questo hub per la pace non è solo retorica, è un messaggio chiaro: a Pisa si stringeranno sempre di più le maglie della collaborazione, della messa a disposizione di saperi ed expertise di questo tipo per formare tutto quel personale necessario alla guerra, in cui sempre meglio si potrà studiare la logistica di guerra e i suoi perfezionamenti. Non è un caso, a nostro avviso, che le Università parlino di hub nel momento in cui sul territorio già da qualche anno – grazie al lavoro del Movimento No base né a Coltano né altrove – si utilizza il termine “Hub militare” o “Hub di Guerra” per descrivere il flusso di trasporti, logistica, merci, armi, soldati, mezzi pesanti e conoscenze tra Pisa, Livorno e La Spezia. Uno snodo strategico che via mare, via cielo, passando tra le reti del Camp Derby e anche in Centro a Pisa dentro le università. Si usa la parola Hub per provare a sovrascrivere questo ragionamento con il suo contrario. Ma noi sappiamo che l’unica pace possibile è lontana dalle collaborazioni guerrafondaie, e che l’unica solidarietà l’hanno mostrata i Movimenti che da anni senza se e senza ma si sono schierati dalla parte dei popoli che resistono.
