Nelle piazze italiane, il 22 settembre ha segnato un salto di fase. A Pisa 10mila persone hanno bloccato la città e la superstrada, dentro una giornata di sciopero generale che ha attraversato oltre 70 città.
A partire dalla partenza della Global Sumud Flotilla dal Mediterraneo, si sta aprendo un vero cambio di fase nelle mobilitazioni in Italia per la Palestina. Da quasi due anni movimenti e organizzazioni politiche in tutta Italia si muovono in una direzione che oggi appare sempre più condivisa. Già dall’appello del CALP di Genova a tutta Europa è emersa con chiarezza la forma che l’attivazione politica deve assumere: fermare il genocidio significa bloccare la guerra alla radice, dalla progettazione di armamenti alla logistica bellica.
La giornata del 22 settembre è stata significativa per almeno due motivi. Anzitutto ha confermato la forza delle mobilitazioni per la Palestina: a quasi due anni dall’inizio dell’acuirsi del genocidio, le piazze non si sono spente ma hanno continuato a crescere. Scioperi, blocchi, manifestazioni e occupazioni hanno saputo adattarsi ai momenti politici mentre l’escalation israeliana non si è mai fermata. Né si sono fermati i tentativi di delegittimazione: da un lato l’attacco ideologico di chi difende il pensiero sionista cercando di rovesciare la realtà, dall’altro i tentativi di alcune forze politiche più moderate di ridurre la solidarietà a “lutto per Gaza” e assistenzialismo. Eppure i movimenti si sono rigenerati, e l’autunno appena iniziato sta rimettendo al centro parole e pratiche più incisive: stare al fianco della Palestina significa bloccare gli ingranaggi che alimentano il genocidio, a partire da qui. La retorica dei “buoni” e dei “cattivi” non può più essere rovesciata addosso ai manifestanti: oggi è sempre più chiaro che dalla parte giusta stanno coloro che mettono il proprio corpo e la propria voce al fianco del popolo palestinese, mentre dalla parte sbagliata ci sono quanti continuano a difendere il sionismo e le sue logiche di guerra.
Il secondo elemento riguarda lo sciopero. La giornata ha reso chiaro che scioperare oggi significa bloccare: sottrarsi allo status quo difeso dalle istituzioni non può limitarsi a una testimonianza, ma deve trasformarsi in interruzione concreta della macchina bellica ed economica.
A Pisa la giornata è iniziata con picchetti davanti a due poli universitari, Fibonacci e Piagge. I cancelli e le porte chiusi con catene e lucchetti e presidiati dallə studentə. Dalle 9.00 10 mila persone hanno invaso le strade: il concentramento, inizialmente previsto in piazza XX Settembre, si è presto riversato sul ponte di Mezzo per accogliere l’enorme afflusso di chi arrivava a manifestare. Da lì il corteo ha sfilato lungo i lungarni, fino a sud, bloccando la città e paralizzando la stazione degli autobus alla Sesta Porta.
Il corteo, animato da cori continui e da una determinazione condivisa, ha puntato con decisione al blocco. È così che la manifestazione ha raggiunto San Giusto, riuscendo a salire sulla Fi-Pi-Li, paralizzando la città e le zone limitrofe.
Solo poche settimane fa 3.000 persone avevano bloccato la stazione di Pisa, delineando con forza l’esempio di una nuova fase di mobilitazioni estesa ormai a tutto il Paese. Più di 70 città hanno bloccato stazioni, autostrade, università, luoghi di lavoro e industrie belliche.
Dalle studentə alle pensionatə, dai lavoratorə alle famiglie, chi è sceso in strada sapeva che fermare il genocidio significa bloccare i flussi che alimentano la guerra.
L’Italia ha lanciato un segnale inequivocabile: non basta più esprimere indignazione, serve costruire un rapporto di forza reale. Pisa, insieme a molte altre città, ha mostrato una determinazione diffusa, capace di trasformare la solidarietà internazionale in pratica concreta di blocco.
Il 22 settembre non è stato soltanto uno sciopero: è stato un passaggio che apre una prospettiva sociale ampia, radicata e consapevole. L’Italia sa da che parte stare. E sa cosa deve bloccare.