Riportiamo di seguito l’invito alla partecipazione lanciato da Non una di Meno Pisa per la due giorni transfemminista “Costruire reti contro la guerra”. Gli eventi saranno al presidio di pace no base Tre pini a San piero a Grado.
Come assemblea di Non una di Meno di Pisa abbiamo scelto di costruire due giorni di confronto e attivazione contro la guerra al presidio di pace “Tre Pini”, nel fine settimana del 5 e 6 luglio. Scriviamo per invitarvi a partecipare, e per chiarire la genesi e gli obiettivi che ci hanno portato a questa due giorni, con la speranza di poterla riempire insieme!
Intanto partiamo da qui: perché un no alla guerra dal nodo pisano di Non una di Meno? Da oltre tre anni la nostra città è stata investita da un progetto ecocida e bellicista di costruzione di una nuova base militare per i reparti speciali dei carabinieri GIS e Tuscania, che esportano guerra e violenza in tutto il mondo dalla loro nascita, e proprio oggi sono coinvolti nel blocco del valico dall’Egitto per l’ingresso nella Striscia di Gaza. Questo progetto ha fatto nascere a Pisa un movimento che come parole d’ordine si è dato da subito quelle di “Nessuna base per nessuna guerra”, mettendo in luce come la guerra si produce – e quindi si può bloccare – a partire dai nostri territori. In questo contesto, insieme all’escalation bellica globale a cui stiamo assistendo in modo sempre più evidente negli ultimi due anni, a partire dal genocidio del popolo palestinese, ci si è imposta come sempre più urgente una riflessione sulla e contro la guerra che comprendesse la lente del genere. Sappiamo che le guerre non sono mai neutre dal punto di vista etnico e di classe. Non lo sono neanche dal punto di vista del genere. Come e perché però questo succede? In che modo un regime di guerra impone in primis un regime di guerra alle donne e LGBTQIA+? Su queste domande vogliamo riflettere insieme in questi due giorni, perché sappiamo che se non lo facciamo noi, nessuno lo farà al nostro posto. Vogliamo farlo al presidio dei Tre Pini, un luogo che si trova davanti alle reti in cui vorrebbero costruire la nuova base militare, perché sappiamo che il nostro sapere può costruirsi solo in una continua dialettica con la nostra attivazione.
Come movimento transfemminista abbiamo imparato che la divisione mente/corpo e fruizione/organizzazione sono dispositivi patriarcali, che le forme per imparare sono infinite, tante quanto quelle con cui ci mobilitiamo, e che la cooperazione è un valore fondamentale. Vogliamo per questo costruire due giorni di riflessione vera, in cui mettersi in gioco rileggendo le proprie specificità alla luce della guerra dal punto di vista del genere. Non ci sono prodotti già pronti che proponiamo, ma lo spazio per costruirli. Accanto alle discussioni, vorremmo creare altri tipi di attività (laboratori, letture, passeggiate), per cui chiediamo a tuttə di contribuire con idee, scrivendoci, o con la loro realizzazione. Useremo strumenti che spesso pensiamo come di proprietà o competenze altrui, come la creazione di mappe digitali, nella convinzione che possono essere anche nostri e usati in conformità con le nostre esigenze.
Di seguito scriviamo le tracce delle quattro macro-aree in cui vorremmo organizzare le discussioni. Invitiamo tuttə a leggerle e a portare il proprio contributo a partire dagli interrogativi che lì sono posti.
Restiamo a disposizione per qualsiasi cosa (potete contattare il numero 3384093201)! Informazioni più dettagliate sul programma usciranno a breve, però intanto possiamo dire che sarà possibile dormire con la tenda al presidio dei Tre Pini (saremmo molto contentə di condividere anche questa parte!), mentre in casi di necessità ci possiamo organizzare con altre forme di ospitalità. A presto!
- LA GUERRA CONTRO LE DONNE*, LE DONNE* NELLA GUERRA.
Tanto più l’escalation bellica e la mentalità guerrafondaia si fanno brutali, tanto più la violenza contro le soggettività femminilizzate si fa efferata. Guerra e patriarcato condividono logiche di dominio su corpi e territori: la violenza di genere è alla base di ogni altra forma di violenza, dal colonialismo all’estrattivismo.
I corpi dissidenti sono da sempre bersagli per distruggere legami comunitari e il radicamento con la collettività e con la natura. Lo stupro, usato come arma da guerra, è un’espressione del potere patriarcale, come vediamo giornalmente nel genocidio in Palestina, ma lo è anche nella nostra vita.
Oggi assistiamo al ritorno del fascismo, sotto la retorica della “cultura occidentale”: un sistema patriarcale e coloniale che marginalizza oppressə, colpisce la comunità LGBTQIA+ e le persone trans, porta avanti con brutalitá guerre e genocidi e capitalizza sulla morte anche attraverso l’industria bellica e i media che spettacolarizzano i femminicidi. Chi non rientra nei ruoli imposti è vist* come una minaccia per l’ordine patriarcale e per la modernità capitalista, bellicista e coloniale.
Contro la libertà e l’autodeterminazione delle donne e soggettività LGBTQIA+ si scagliano politiche familiste, attacchi all’aborto e leggi come il DDL 832, che legittima le violenze e punta a scoraggiare le denunce.
Mentre i fondi pubblici finanziano la guerra, i servizi essenziali vengono smantellati. Sulle soggettività femminilizzate grava il lavoro di cura e riproduttivo, non lasciandoci tempo libero per confrontarci ed organizzarci. Solo alcune – bianche, sposate, con lavoro stabile – sono considerate “madri legittime”.
I corpi dissidenti resistono ovunque: in Rojava, Chiapas, Palestina, Iran. Tutte le lotte, ovunque nel mondo, sono fili da intrecciare per costruire una resistenza globale e transfemminista e rompere gli ingranaggi della guerra patriarcale. È da tuttə le oppressə che nasce la resistenza!
- CONTRO GUERRE E VIOLENZA DI GENERE COSTRUIAMO L’EDUCAZIONE TRANSFEMMINISTA
Ordine, disciplina e rispetto sono le parole chiave di una scuola che, invece di essere la possibilità di contrasto alla violenza di genere e di un’educazione sessuo-affettiva e alle relazioni per le persone piccole, diviene terreno di educazione militare.
Il mondo della formazione è un tassello fondamentale nella preparazione delle guerre, dalla scuola dell’infanzia all’università: dalle gite nelle caserme e nelle basi, agli incontri con i militari nelle scuole, fino ad arrivare alle indicazioni sullo studio della storia occidentale e l’inserimento del voto in condotta.
Le Nuove Indicazioni Nazionali per le scuole del primo ciclo, promosse dal Ministero, rendono evidente il paradosso di una scuola che imbraccia le armi in nome un’educazione al rispetto che si prospetta, tra le altre cose, come unica soluzione alla violenza di genere, al bullismo e ad ogni forma di prevaricazione.
Ma quale contrasto alla violenza può avvenire se l’educazione, in questa prospettiva, si basa sul disciplinamento? Si vuole costruire fiducia nella relazione educativa o sviluppare una specie di cieca lealtà verso l’autorità? Quindi di quale rispetto si parla, verso chi e per cosa?
L’accettazione e la normalizzazione della violenza patriarcale e della guerra sono una necessaria all’altra. “Educare” a un mondo dove la violenza è data per scontata significa preparare ad accettarla nelle relazioni quotidiane così come nella sua massima forma, la guerra, che entra cosí a pieno titolo nelle aule dall’infanzia all’università, facendosi spazio, spingendo ai margini chi non rientra negli schemi prestabiliti, legittimando e promuovendo la violenza.
Per fermare la violenza di genere e la cultura della guerra é necessario immaginare una trasformazione dei contesti educativi: mettere al centro il dialogo e la condivisione, rompere la solitudine e la competizione, immaginare un’educazione al consenso, all’affettività e alla sessualità come base di ogni proposta didattica. Solo così potremo rendere gli spazi educativi liberi da logiche di prevaricazione e violenza.
Come studenti, genitorə, educatorə, docenti e ricercatorə dobbiamo riconoscere la centralità della dimensione educativa nella costruzione di alternative alla cultura patriarcale e militarista e organizzarci e cooperare per farlo.
Discutiamone insieme, immaginiamo e costruiamo un’educazione transfemminista!
- ECONOMIA DI GUERRA: CORPI E TERRITORI SACRIFICABILI
Combattere la normalizzazione del discorso genocida è una priorità per frenare l’estrema destra e il suo progetto sociale razzista. Gaza funge da laboratorio e banco di prova per aziende che poi rivendono le loro armi dopo averle testate, ma non è solo questo. La catastrofe di Gaza è l’attuazione di un progetto di società di estrema destra, un laboratorio di dominio basato sull’indifferenza e sulla disumanizzazione, con l’amplificazione di questa logica su tutti i territori.
Parlare di economia di guerra significa andare oltre cifre e investimenti militari: è una logica suprematista che opera in maniera strisciante. Economia di guerra significa fare tagli al welfare per persone non produttive, perché anziane o malate, mentre i servizi sociali agiscono come corpi di polizia che scambiano diritti come merce per meritevoli disciplinati, pronti all’obbedienza e disposti ad assoggettarsi. Si deve salvare solo una parte di società: chi rispetta i ruoli di genere e produce figli per la patria senza mettere in difficoltà l’identità, e chi lavora duramente.
Il colonialismo persiste nelle società occidentali attraverso esperienze concrete. L’esplosione della sanità privata per chi lavora per grandi aziende convive con i tagli alla sanità pubblica che dovrebbe garantire salute gratuita a tutt, anche e soprattutto ai corpi esclusi dal welfare aziendale, dei cosiddetti “corpi improduttivi”. Le badanti e le operatrici sanitarie migranti si trovano a dover curare persone anziane o con disabilità senza poter accedere loro stesse alla sanità e al welfare, in una catena di esclusione che riproduce gerarchie coloniali.
Le donne delle pulizie negli ospedali lavorano di notte per salari minimi, pulendo i reparti dove non possono permettersi di curarsi. I riders che consegnano cibo non hanno diritto alla malattia, mentre portano pasti a chi può permettersi il delivery. Le operaie dei call center gestiscono pratiche sanitarie e assicurative per servizi a cui non accedono.
La psichiatrizzazione diventa strumento di controllo sistematico. Invece di appoggiare la salute mentale, si marginalizzano le persone ritenute outsider e si psichiatrizza ogni rifiuto della classe lavoratrice stanca e sfruttata. A donne esauste dal lavoro di cura viene suggerito di assumere farmaci per dormire e ansiolitici invece di riconoscere l’insostenibilità delle condizioni. Alle madri single che non riescono a conciliare lavoro e famiglia viene proposta terapia invece di supporto concreto. Ai giovani precari che manifestano ansia per il futuro vengono prescritti antidepressivi invece di stabilità lavorativa.
L’approccio alla malattia e alla medicina diffuso nei contesti della salute e del lavoro contribuisce a costruire un modello femminile atto invisibilizzare le reali cause delle difficili condizioni di salute di molt, promuovendo la sopportazione del dolore come normalità necessaria, portando a considerare la sofferenza come indisciplina e diserzione dallo sforzo sociale, quindi non permessa e da medicalizzare.
Certi corpi sono più sacrificabili in base a dove nascono e vivono.
I migranti morti nel Mediterraneo che non si contano più, così come le lavoratrici e i lavoratori morti sul posto di lavoro, le persone anziane abbandonate a se stesse, persone con disabilità escluse dai trasporti e dagli spazi pubblici inaccessibili, le persone trans invisibilizzate e sistematicamente . La guerra continua ad alimentare questi meccanismi normalizzandoli.
Il femminismo di periferia non è geografico ma è quello che dai margini mette in discussione tutto, partendo dalle esperienze di chi vive sulla propria pelle queste violenze strutturali. Cosa significa economia di guerra per noi? Quali peggioramenti sentiamo? Quali sono questi corpi sacrificabili? Quali territori abitano? Come unire queste soggettività?
4) INTERSEZIONI E RESISTENZE. Assemblea conclusiva della due giorni a partire dalle riflessioni dei tavoli.
Costruiamo forme di autorganizzazione, cooperazione di lotta e resistenza transfemminista.
Come rappresentato dalla cornice presentata con la traccia delle tre precedenti macro aree, la preparazione alla guerra si traduce in devastazione ambientale, tagli al welfare e criminalizzazione del dissenso, con un impatto particolare su donne, soggettività non conformi e territori. La militarizzazione delle scuole normalizza la guerra attraverso progetti che vedono poliziotti e militari come formatori, mentre i nostri territori vengono violentati da basi e industrie belliche. Il caso toscano tra Pisa, Livorno e Pontedera è emblematico di come intere aree vengano sottratte alla cittadinanza per la militarizzazione.
Contemporaneamente, le politiche familiste e transfobiche delle nuove destre limitano quotidianamente la nostra autodeterminazione, obbligando alla maternità e imponendo un violento binarismo di genere. Questi attacchi si collegano direttamente al futuro di guerra che vorrebbero imporci, creando una logica di disumanizzazione che rende certi corpi più sacrificabili di altri.
In territori devastati, senza servizi, dove il carico di cura è sempre più concentrato su di noi, crediamo quindi sia necessario ripensare il significato di “se ci fermiamo noi si ferma il mondo”: se ci fermiamo noi si ferma anche la guerra con tutti i suoi ingranaggi. La resistenza di donne e soggettività LGBTQIA+ mette in scacco il sistema patriarcale, mostrando come le ribellioni contro guerra, patriarcato e violenza istituzionale siano interconnesse.
In quest’ottica, pensiamo a questo momento conclusivo di discussione e confronto della due giorni come alla possibilità di mettere a fuoco insieme queste forme di resistenza e fare un passo in più verso il loro concreto rafforzamento in una prospettiva comune: quella del rifiuto di tutte le forme della guerra e del sistema patriarcale.
Arricchit dalle condivisioni e dalle riflessioni che saranno emerse nei momento precedenti, immaginiamo dunque che questa possa essere l’occasione per chiederci insieme: come ci organizziamo quando è sempre più chiaro che la lotta contro la guerra e quella per la riappropriazione dei nostri diritti sono la medesima cosa? Come costruire educazione affettiva e scuole transfemministe contro la militarizzazione della formazione? Come reagire alle imposizioni sui nostri corpi senza subire le iniziative governative?
A partire da queste domande, vogliamo creare nuove forme di valorizzazione delle esperienze collettive e individuali di diserzione dalla guerra per costruire intenti comuni. Questa plenaria finale è dedicata quindi agli strumenti di resistenza che abbiamo e alla dichiarazione d’intenti sulle forme di resistenza che possiamo costruire insieme, partendo dal riconoscimento che la nostra lotta è per la riappropriazione della vita contro ogni logica di sacrificabilità.
extra: MAPPARE LE NOSTRE (R)ESISTENZE: UNIRE I PUNTINI, VISUALIZZARE INTERSEZIONI.
Per tutta la durata della due giorni saranno diverse le forme di condivisione delle nostre esperienze territoriali e trans-territoriali, di conoscenza reciproca e di restituzione della complessità che, ci auguriamo, caratterizzerà le realtà e le persone partecipanti alle discussioni.
In quest’ottica, insieme ad altre pratiche e attività che proporremo e che invitiamo a proporre, mettiamo a disposizione e vorremmo approfondire insieme l’utilizzo di uno strumento che nel nostro contesto locale è risultato in questi anni particolarmente efficace e stimolante, quello della “mappatura dal basso”.
Chi siamo? Da dove veniamo? Quali sono le oppressioni che più fortemente viviamo sul nostro territorio e contro cui lottiamo? Quali le forme di resistenza? Cosa desideriamo per il nostro territorio?
Mappare insieme tutto questo può significare creare la possibilità visiva di (rin)tracciare le linee che ci uniscono e che ci rendono divers a partire da ognun, acquisire e ricostruire la nostra consapevolezza dello spazio in cui agiamo, della realtà che vogliamo rimmaginare, in ogni particolare ma anche in una visione complessiva. Rendere più immediate le interconnessioni che vogliamo continuare ad esplorare, lasciare emergere l’inaspettato dalla rappresentazione, favorendo forme diverse di restituzione della due giorni. Mappare può significare usare carta e penna, usare strumenti digitali, materiali diversi: forbici, colla, fili colorati. Sentirci liber di scegliere insieme come farlo, ma anche confrontarci sulla riappropriazione di strumenti tecnici, grafici e partecipativi come questo, per arricchire l’immaginazione e gli strumenti che ci aiutano a mettere in collegamento, trasmettere, comunicare, diffondere e esplorare ciò che ogni giorno aggiunge fili in più alla nostra tela contro guerra e patriarcato, rendendolo uno straordinario arazzo.